[:it]
Sono numerose le aziende italiane che hanno investito in Serbia. Basso costo del lavoro, condizioni fiscali favorevoli e un mercato potenziale di 300 milioni di persone, grazie agli accordi di libero scambio con altri Paesi.
Il 16 aprile 2012 Sergio Marchionne – amministratore delegato della FIAT – ha visitato la Serbia per inaugurare ufficialmente la sede distaccata di Kragujevac della fabbrica automobilistica torinese. La FAS – Fiat Automobili Srbija – nasce nel 2008 da una partnership tra Fiat e governo serbo che detengono rispettivamente il 67% e il 33% delle quote azionarie. L’investimento – il maggiore per dimensioni nella storia del Paese balcanico – prevede un ammontare totale di circa 1 miliardo di euro e la creazione di 2.400 posti di lavoro, ai quali si andranno ad aggiungere le cifre dell’indotto automotive che FIAT porterà in dote.
La visita di Marchionne ha avuto anche un’importante valenza politica alla luce della tornata elettorale tenutasi lo scorso 6 maggio e che si chiuderà con il ballottaggio per la carica presidenziale il prossimo 20 maggio. Come nelle elezioni del 2008, anche stavolta il presidente uscente Boris Tadić ha giocato la carta del progetto FIAT, come successo del suo programma politico-economico. I motivi sono chiari: attrarre tecnologia e know-how, creare posti di lavoro e fare della Serbia un polo industriale regionale pienamente integrato nell’UE.
Le aziende italiane sono quelle che maggiormente hanno beneficiato del piano di sviluppo del governo serbo. Nell’ultimo decennio gli investimenti diretti italiani hanno infatti raggiunto idue miliardi di euro1, posizionando l’Italia al primo posto tra gli investitori esteri. Per fare un confronto, nello stesso periodo la Germania si attesta 1.374,1 milioni e gli Stati Uniti 1.277 milioni di euro.
Ma quali sono le principali aziende italiane e dove investono?
Restando in tema, l’investimento FIAT a Kragujevac ha portato alla creazione di un distretto dell’auto che ha visto la delocalizzazione di diverse società italiane nel settore automobilistico, tra le quali la Magneti Marelli, il Gruppo italiano Vescovini, specializzato nella produzione di componenti meccaniche per il settore automobilistico, la Dytech, produttrice di componenti per auto.
Tuttavia il settore industriale italiano maggiormente presente in Serbia è quello del tessile: tra i nomi di maggior peso presenti con propri stabilimenti produttivi si segnalano Calzedonia a Sombor, Golden Lady presente a Valjevo, Pompea e Fulgar a Zrenjanin. A queste si è recentemente aggiunto il gruppo Benetton, che ha firmato nel corso del 2011 un accordo con la città di Niš ed il ministero dell’Economia serbo per rilevare l’azienda tessile NITEX. L’accordo prevede investimenti per oltre quaranta milioni di euro e l’assunzione di oltre 2.700 dipendenti nei prossimi 4 anni.
Importanti nel quadro geopolitico dei Balcani gli accordi firmati a febbraio dello scorso anno tra l’azienda italiana SECI Energia, ramo del gruppo industriale Maccaferri, e la società elettrica statale Elektroprivreda Srbije (EPS) per la collaborazione nella costruzione di impianti di energia idroelettrica lungo il fiume Drina, mentre prosegue il progetto dei due gruppi per la costruzione di una serie di mini-centrali idroelettriche lungo il fiume Ibar. L’iniziativa rientra tra quelle connesse al protocollo bilaterale di collaborazione energetica firmato tra Italia e Serbia. Collaborazione che ha portato i rappresentanti di EPS ed Edison a siglare a giugno 2011 un accordo per la costruzione di due blocchi della centrale termoelettrica di Kolubara.
Tanti anche i progetti per la creazione di infrastrutture che vedono protagoniste aziende italiane: l’Italferr si è aggiudicata due importanti gare, il nuovo ponte ferroviario di Novi Sad e lo studio di fattibilità per la ristrutturazione della ferrovia Belgrado – Bar; il Gruppo Taddei si è aggiudicato il progetto IPA per la costruzione del moderno ponte “Zezelj”, il cui costo previsto supera i 45 milioni di euro; la STG Group ha avviato la produzione nella fonderia Sirmium Steel di Sremska Mitrovica, con un investimento dal valore complessivo di circa 35 milioni di euro.
Le imprese italiane hanno il vantaggio di trovare in Serbia la presenza di due grandi gruppi finanziari italiani: Intesa-San Paolo e Unicredit. Queste due banche detengono una quota di mercato di circa il 25% dell’intero settore bancario locale, risultando le due principali banche commerciali del Paese. Inoltre Generali ha acquistato nel 2006 il 50% della Delta Osiguranje – primo gruppo assicurativo privato e terzo operatore del mercato assicurativo serbo –, mentre Fondiaria-SAI nel 2007 ha acquistato la Compagnia statale D.D.O.R. di Novi Sad che, con una quota di mercato del 30%, è la seconda società assicuratrice in Serbia. La quota complessiva del mercato assicurativo serbo controllata dalle aziende italiane si aggira intorno al 44%.
Basso costo del lavoro e condizioni fiscali favorevoli
Il costo del lavoro in Serbia è molto basso2. Il più basso dell’area dei Balcani e nettamente inferiore alla media europea. La media dei salari e stipendi mensili nell’industria manifatturiera è mediamente inferiore ai 400 euro: un lavoratore serbo percepisce infatti un salario che oscilla dai 200 ai 380 euro mensili, a seconda della tipologia di lavoro e del settore d’impiego. Per fare un confronto: i circa 400 euro pagati dalla FAS ai suoi operai sono di un terzo più bassi degli stipendi pagati negli stabilimenti FIAT in Polonia, che ammontano a circa 600 euro.
Il sistema fiscale è tra i più competitivi: a) la più bassa aliquota fiscale sugli utili (10%), mentre i Paesi concorrenti si attestano mediamente sul 20%; b) la più bassa imposta sui redditi personali in Europa (12%), con i Paesi confinanti che registrano tassi del 16, 19 o addirittura 36%. A tutto ciò, va aggiunta l’esenzione decennale dall’imposta sugli utili per investimenti superiori agli 8 milioni di euro, le agevolazioni fiscali per gli investimenti fissi e l’esenzione dai dazi doganali per alcuni mezzi di produzione.
Inoltre, visto l’alto tasso di disoccupazione, che dall’ultimo rilevamento ha toccato quota 24%, il governo serbo è intervenuto direttamente affinché gli investimenti esteri producano nuovi posti di lavoro. Di fatto il governo ha predisposto dei fondi statali rivolti alle aziende che creano nuova occupazione. Nel dettaglio, sono previsti incentivi che variano da 2 a 10mila euro per ogni nuovo posto di lavoro, a seconda del numero di posti creati, della zona di produzione e della tipologia dell’industria. Inoltre per gli investimenti di valore superiore ai 50milioni di euro, con creazione di almeno 300 nuovi posti di lavoro, si ottengono contributi per il 20% del valore dell’investimento; se l’investimento è superiore ai 200 milioni e crea almeno 1000 nuovi posti di lavoro, il contributo è del 25%. Infine è stata prevista l’esenzione per 10 anni dall’imposta sugli utili societari per investimenti superiori ai 7 milioni di euro o che impiegano almeno 100 nuovi dipendenti.
Un piccolo Paese, un grande mercato
Un altro elemento che rende appetibile investire in Serbia sono gli accordi di libero scambio che il Paese gode nei confronti di economie a forte crescita. La Serbia si trova al centro dell’area di libero scambio CEFTA3, che significa accesso ad un mercato di 30 milioni di persone. L’ASA (Accordo di Stabilizzazione e Associazione) firmato con l’UE assicura l’esportazione dei prodotti verso l’UE senza dazi aggiuntivi e prevede uno status privilegiato nel commercio con gli Stati Uniti. Tra il 2007 ed il 2009 inoltre la Serbia ha firmato accordi di libero scambio con Russia, Bielorussia e Turchia. In altre parole, se un’azienda estera decide di produrre in Serbia può liberamente accedere ad un mercato di oltre 300 milioni di persone senza tariffe doganali aggiuntive.
Il governo serbo ha inoltre creato, in prossimità di grandi città o di aree logisticamente strategiche, delle zone franche. Le zone franche sono istituite per agevolare ed attrarre gli investitori e sono intese come sistemi logistici-produttivi integrati atti a favorire l’insediamento e lo sviluppo di imprese straniere.
All’interno delle zone franche, le imprese straniere possono godere di alcuni specifici benefici, tra i quali: l’esenzione da imposte sul trasferimento di profitti; importazioni ed esportazioni esentate dai controlli doganali e dall’IVA; materiali di costruzione, materie prime e macchinari utilizzati per la produzione di beni da esportare possono essere importati senza dazi doganali; i prodotti che hanno almeno il 51% del valore prodotto all’interno della zona franca sono considerati prodotti nazionali e possono essere liberamente venduti all’interno della Serbia.
Ma è tutto oro quello che luccica?
La politica del governo serbo ha sicuramente una logica razionale. La Serbia ha iniziato il processo di normalizzazione politico-economica solo all’inizio degli anni 2000, in netto ritardo rispetto ad altri Paesi della regione. La guerra, la distruzione di impianti ed infrastrutture, nonché le tensioni sociali hanno lasciato profonde conseguenze nella capacità produttiva del Paese. Da qui, la strategia di Tadić di avvicinarsi all’Europa che conta attraverso un programma di facilitazione degli investimenti esteri. Programma che ha un duplice vantaggio: da una parte gli investimenti avrebbero portato in breve tempo ad aumentare la capacità produttiva del Paese, creando posti di lavoro e trasferendo tecnologia e know-how che la Serbia non sarebbe altrimenti stata in grado di produrre autonomamente; dall’altra, la Serbia avrebbe guadagnato credibilità internazionale, dando così una forte spinta al processo di integrazione europea.
Ma una tale politica ha anche costi importanti: le aziende internazionali notoriamente non si muovono per amore verso gli altri, ma lo fanno solo se incontrano condizioni vantaggiose. Queste ultime implicano la necessità di mettere sul tavolo importanti risorse interne: materiali, umane e finanziarie. Ovvio come la posta in gioco possa rivelarsi un boomerang fatale per il governo locale: o l’investimento porta ai risultati sperati in termini di occupazione e sviluppo economico, o diventa difficile giustificare davanti alla popolazione la scelta di stanziare risorse a favore di colossi industriali esteri invece che verso programmi sociali a favore delle fasce più povere. In questo quadro, la crisi economica mondiale non ha certo giocato a favore delle scelte di Tadić.
Il caso FIAT ne è un esempio lampante. Quello che gli amministratori locali hanno definito come “l’investimento del secolo” sta vivendo probabilmente la sua fase più importante e difficile. A marzo 2012 la Fiat Automobili Srbija (FAS) ha presentato al Salone dell’Auto di Ginevra la “500L”: prima vettura ad essere interamente prodotta negli stabilimenti di Kragujevac e che verrà messa sul mercato a partire da luglio 2012. Il successo del progetto FAS è strettamente legato a quello della nuova vettura. Mentre Marchionne ha vantato cifre da capogiro durante l’inaugurazione ufficiale della FAS lo scorso 16 aprile, con una produzione prevista di oltre 300mila vetture l’anno, il clima tra i lavoratori sembrava tutt’altro che ottimista. Le manifestazioni di protesta e gli scioperi sono all’ordine del giorno, con la polizia spesso impegnata a proteggere fisicamente l’investimento della fabbrica torinese. Il sindacato locale accusa FIAT di non aver mantenuto le promesse4: del miliardo di euro di investimenti previsto, solo una piccola parte è stata effettivamente elargita da FIAT mentre il governo serbo ha messo preventivamente sul piatto le proprie risorse5. Gli operai assunti ad oggi sono una frazione di quelli che hanno perso il lavoro dal crollo dei vecchi stabilimenti e che ora gravano sulle casse dello Stato, mentre la produzione di auto è ferma a poche decine al giorno6. Marchionne e Tadić si sono mostrati ottimisti riguardo al futuro dell’investimento, dichiarando che i frutti di ciò che è stato fatto fino ad ora si vedranno non appena il nuovo modello prodotto sarà immesso sul mercato, e la produzione in serie sarà a pieno regime. Ma la crisi economica non gioca a favore del progetto. I sindacati locali dichiarano che FIAT non ha intenzione di rischiare: non assumerà e non produrrà vetture in Serbia fino a che non sarà certa del successo commerciale della nuova 500L. Rimanere con i magazzini pieni di auto invendute potrebbe infatti rivelarsi fatale per l’azienda torinese, e la crisi rende il rischio molto alto. Così, mentre i vertici politici ed economici esaltano l’importanza del progetto, sempre più gente si chiede se la Serbia avrebbe potuto usare le proprie risorse in modi alternativi. In questo quadro, la frase riportata sulla fabbrica di Kragujevac “Mi smo ono što stvaramo” (“Noi siamo quello che produciamo”, la stessa riportata nello stabilimento di Pomigliano) suona alquanto profetica e minacciosa. Il futuro della Serbia – grazie (o a causa, a voi la scelta!) delle scelte interne di politica-economica – si è strettamente legato al successo commerciale di ciò che viene prodotto localmente da un colosso estero.
Con la speranza di aver scelto di “produrre” la cosa giusta.
[:]